Va ogni sera alla fontana,
dove bianche l'acque scrosciano,
la bellissima figliola
del Sultano a passeggiare.
E ogni sera alla fontana,
dove bianche l'acque scrosciano,
sta uno schiavo giovinetto:
ogni dì più smorto appare.
Verso lui la principessa
va una sera e dice in fretta:
"Il tuo nome, io vo' sapere,
la tua patria, i tuoi cognati!"
E lo schiavo a lei: "Mi chiamo
Mohamèt, nacqui nell'Yemen,
son degli Asra, quei che muoiono
quando sono innamorati."
(Heinrich Heine - Antologia lirica - Trad. Amalia Vago)
Heinrich Heine
Heinrich Heine - Poesie, prose e scritti
WENN JUNGE HERZEN BRECHEN
Quando quaggiù si spezzano
giovani cuori umani,
ridon le stelle e dicono
là dai cieli lontani:
"Oh, poveretti, gli uomini
s'aman con grande ardore,
e tanto poi ne soffrono
da morir di dolore.
Noi dall'amor siam libere,
causa di tanti mali
sopra la terra agli uomini;
perciò siamo immortali."
(Heinrich Heine - Antologia lirica - Trad. Amalia Vago)
giovani cuori umani,
ridon le stelle e dicono
là dai cieli lontani:
"Oh, poveretti, gli uomini
s'aman con grande ardore,
e tanto poi ne soffrono
da morir di dolore.
Noi dall'amor siam libere,
causa di tanti mali
sopra la terra agli uomini;
perciò siamo immortali."
(Heinrich Heine - Antologia lirica - Trad. Amalia Vago)
LAMENTAZIONI
Una volubile amorosa
è la Fortuna ; t'accarezza
lieve i capelli ; e, frettolosa,
ti bacia, e vola ad altra ebbrezza.
Monna Sventura è più leale ;
t'abbraccia forte, e: Non ho fretta! -
dice, e si pianta al capezzale
a sferruzzare la calzetta.
(Heinrich Heine - Romanzero - Trad. Giorgio Calabresi)
è la Fortuna ; t'accarezza
lieve i capelli ; e, frettolosa,
ti bacia, e vola ad altra ebbrezza.
Monna Sventura è più leale ;
t'abbraccia forte, e: Non ho fretta! -
dice, e si pianta al capezzale
a sferruzzare la calzetta.
(Heinrich Heine - Romanzero - Trad. Giorgio Calabresi)
IL CAVALIER OLAF
Sulla piazza della chiesa
solo due persone c'è,
ambedue con vesti rosse,
l'una il boia e l'altra il re.
Al carnefice il re parla:
"Tien la scure presta; il santo
rito è già compiuto, come
or de' preti annuncia il canto."
Suonan le campane e l'organo
e la gente corre fuori,
dalla chiesa escon gli sposi
tra corteggio a più colori.
Ha del re la figlia il volto
bianco bianco ed angosciato,
ma sir Olaf lieto e franco
ride col labbro rosato.
E ridendo col rosato
labbro dice al cupo sire:
"Oh io suocero, buon giorno!
io quest'oggi ho da morire;
ma che sino a mezzanotte
sol io viva mi permetti,
ch'io festeggi le mie nozze
tra le danze ed i banchetti.
Fa' che sino a mezzanotte
non i sia la vita tolta,
sino a ber l'ultima tazza
e a danzar l'ultima volta!"
Ed, al boia il re favella:
"Il mio genero sia pure
salvo sino a mezzanotte;
tieni pronta la tua scure."
Olaf beve del banchetto
nuzial le tazze estreme;
e la sposa, alle sue spalle
appoggiando il capo, geme.
Ed il boia è sulla porta.
S'apre il ballo. Olaf la sposa
prende con selvaggio ardore,
e la danza ultima intreccia
delle fiaccole al chiarore.
Ed il boia è sulla porta.
Son sì dolci i violini
e i sospiri del dolente
flauto! Chi danzar li vede
una stretta in cuore sente.
Ed il boia è sulla porta.
Olaf mormora alla sposa
nella sala, che rimbomba
per le danze: "Oh, quanto t'amo!"
E' così fredda la tomba!"
Ed il boia è sulla porta.
E', sir Olaf, mezzanotte!
hai la tua vita vissuta,
una vergine regale
hai nel puro aer goduta.
Frati mormoran le preci
dei morenti; in rossa vesta,
presso il ceppo nero, il boia
la lucente scure appresta.
Olaf scende nel cortile
pieno d'armi e risplendente;
ride col labbro rosato,
parla col labbro ridente:
"Benedico il sol, la luna,
e le stelle in ciel brillanti,
benedico gli uccelletti
su nell'aria bisbiglianti.
Benedico il mar, la terra,
ed i fiori della prata,
le viole dolci come
gli occhi dell'innamorata;
e quegli occhi di viola,
per i quali a morir vò,
e il boschetto verde dove
ella a me s'abbandonò."
(Heinrich Heine - Antologia lirica - Trad. G. Pardi)
solo due persone c'è,
ambedue con vesti rosse,
l'una il boia e l'altra il re.
Al carnefice il re parla:
"Tien la scure presta; il santo
rito è già compiuto, come
or de' preti annuncia il canto."
Suonan le campane e l'organo
e la gente corre fuori,
dalla chiesa escon gli sposi
tra corteggio a più colori.
Ha del re la figlia il volto
bianco bianco ed angosciato,
ma sir Olaf lieto e franco
ride col labbro rosato.
E ridendo col rosato
labbro dice al cupo sire:
"Oh io suocero, buon giorno!
io quest'oggi ho da morire;
ma che sino a mezzanotte
sol io viva mi permetti,
ch'io festeggi le mie nozze
tra le danze ed i banchetti.
Fa' che sino a mezzanotte
non i sia la vita tolta,
sino a ber l'ultima tazza
e a danzar l'ultima volta!"
Ed, al boia il re favella:
"Il mio genero sia pure
salvo sino a mezzanotte;
tieni pronta la tua scure."
Olaf beve del banchetto
nuzial le tazze estreme;
e la sposa, alle sue spalle
appoggiando il capo, geme.
Ed il boia è sulla porta.
S'apre il ballo. Olaf la sposa
prende con selvaggio ardore,
e la danza ultima intreccia
delle fiaccole al chiarore.
Ed il boia è sulla porta.
Son sì dolci i violini
e i sospiri del dolente
flauto! Chi danzar li vede
una stretta in cuore sente.
Ed il boia è sulla porta.
Olaf mormora alla sposa
nella sala, che rimbomba
per le danze: "Oh, quanto t'amo!"
E' così fredda la tomba!"
Ed il boia è sulla porta.
E', sir Olaf, mezzanotte!
hai la tua vita vissuta,
una vergine regale
hai nel puro aer goduta.
Frati mormoran le preci
dei morenti; in rossa vesta,
presso il ceppo nero, il boia
la lucente scure appresta.
Olaf scende nel cortile
pieno d'armi e risplendente;
ride col labbro rosato,
parla col labbro ridente:
"Benedico il sol, la luna,
e le stelle in ciel brillanti,
benedico gli uccelletti
su nell'aria bisbiglianti.
Benedico il mar, la terra,
ed i fiori della prata,
le viole dolci come
gli occhi dell'innamorata;
e quegli occhi di viola,
per i quali a morir vò,
e il boschetto verde dove
ella a me s'abbandonò."
(Heinrich Heine - Antologia lirica - Trad. G. Pardi)
CANTI - VIII
Da principio ero quasi disperato,
non mi credea poterlo sopportare;
eppure ho sopportato;
ma come sopportai non domandare!
(Heinrich Heine - Antologia lirica - Trad. Bernardino Zendrini)
non mi credea poterlo sopportare;
eppure ho sopportato;
ma come sopportai non domandare!
(Heinrich Heine - Antologia lirica - Trad. Bernardino Zendrini)
LA SIGNORINA AL MARE IN RIVA
La signorina al mare in riva
gemea pietosamente,
tanto la inteneriva
vedere il sol cadente.
"Che vuol farci, mia signorina,
se sempre così fu!
Da una parte declina,
dall'altra torna su."
(Heinrich Heine - Antologia lirica - Trad. Rosa Errera)
gemea pietosamente,
tanto la inteneriva
vedere il sol cadente.
"Che vuol farci, mia signorina,
se sempre così fu!
Da una parte declina,
dall'altra torna su."
(Heinrich Heine - Antologia lirica - Trad. Rosa Errera)
RITORNO
Io sempre te lo dissi ( non è vero? )
che in alto saprei giungere.
E i miracoli compio tutti i giorni
da farti strabiliare,
e per tuo spasso oggi rallegrare
i Berlinesi voglio.
Ed ecco, del selciato ora si fendano
le pietre ad una ad una,
e chiara e fresca un'ostrica ciascuna
al mio cenno contengano.
E una pioggia di sugo di limone
scenda come rugiada
le irrori, e scorra ai lati della strada
il vin del Reno, a rivoli.
Oh come i Berlinesi si rallegrano,
corrono a divorare;
i Consiglieri son curvi a succhiare
il vino dai rigagnoli.
Oh come si rallegrano i poeti
a tal grazia del Cielo!
I tenenti e gli alfieri con gran zelo
tutta la strada leccano.
I tenenti e gli alfieri, che di tutti
sono i più intelligenti,
van pensando che simili portenti
tutti i dì non succedono.
(Heinrich Heine - Il libro dei canti - Trad. Amalia Vago)
che in alto saprei giungere.
E i miracoli compio tutti i giorni
da farti strabiliare,
e per tuo spasso oggi rallegrare
i Berlinesi voglio.
Ed ecco, del selciato ora si fendano
le pietre ad una ad una,
e chiara e fresca un'ostrica ciascuna
al mio cenno contengano.
E una pioggia di sugo di limone
scenda come rugiada
le irrori, e scorra ai lati della strada
il vin del Reno, a rivoli.
Oh come i Berlinesi si rallegrano,
corrono a divorare;
i Consiglieri son curvi a succhiare
il vino dai rigagnoli.
Oh come si rallegrano i poeti
a tal grazia del Cielo!
I tenenti e gli alfieri con gran zelo
tutta la strada leccano.
I tenenti e gli alfieri, che di tutti
sono i più intelligenti,
van pensando che simili portenti
tutti i dì non succedono.
(Heinrich Heine - Il libro dei canti - Trad. Amalia Vago)
RITORNO - 19
Nell'atrio son tornato,
dov'ella a me fede ha giurato;
dove allora il suo pianto è caduto,
strisciar fuori serpenti ho veduto.
(Heinrich Heine - Il libro dei canti - Trad. Amalia Vago)
dov'ella a me fede ha giurato;
dove allora il suo pianto è caduto,
strisciar fuori serpenti ho veduto.
(Heinrich Heine - Il libro dei canti - Trad. Amalia Vago)
STELLE PRUDENTI
Tra i fiori il piede arriva troppo facile,
e i più son calpestati;
noi via passiamo, ed essi tutti cadono,
superbi o delicati.
Negli scrigni del mare si nascondono
le perle; ma sappiamo
scoprirle, le foriamo, e poi nel serico
vezzo le imprigioniamo.
Le stelle son prudenti: esse rifuggono
dal nostro mondo ingrato,
e per sempre al sicuro in cielo splendono,
lanterne del creato.
(Heinrich Heine - Zur Ollea - Antologia Lirica - Trad. Amalia Vago)
e i più son calpestati;
noi via passiamo, ed essi tutti cadono,
superbi o delicati.
Negli scrigni del mare si nascondono
le perle; ma sappiamo
scoprirle, le foriamo, e poi nel serico
vezzo le imprigioniamo.
Le stelle son prudenti: esse rifuggono
dal nostro mondo ingrato,
e per sempre al sicuro in cielo splendono,
lanterne del creato.
(Heinrich Heine - Zur Ollea - Antologia Lirica - Trad. Amalia Vago)
CONFESSIONI
Il 1° maggio 1831 passai il Reno. L'antico dio-fiume, il padre Reno, non lo vidi e mi limitai a gettargli in acqua il mio biglietto da visita. Sedeva sul fondo, come mi si riferì, intento a studiare nuovamente la grammatica francese del Meidinger, poichè durante il dominio prussiano era regredito considerevolmente in francese e ora voleva riprendere a esercitarsi per ogni eventualità. Credo d'averlo sentito coniugare laggiù: j'aime, tu aimes, il aime, nous aimons. Ma lui cosa ama? Sicuramente non i prussiani. Il duomo di Strasburgo lo vidi solo in lontananza, dondolava con la testa come il vecchio e fedele Eckart quando avvista un giovanotto avvicinarsi al monte di Venere.
A Saint Denis mi svegliai da un dolce sonno mattutino e udii per la prima volta il grido del cocchiere: Paris! Paris! e insieme anche il campanello dei venditori di cocco. Qui si respira già l'aria della capitale, visibile all'orizzone. Un vecchio mascalzone d'un servo voleva persuadermi a visitare le tombe dei re, ma non ero venuto in Francia per vedere re morti e mi limitai a farmi narrare da quel cicerone la leggenda del luovo, ovvero di come il cattivo re dei pagani fece tagliare la testa al santo Denis, e questi con la testa in mano camminò da Parigi a Saint Denis per essere sotterrato qui e dare il proprio nome alla località. A pensare alla distanza, disse il mio narratore, ci sarebbe da stupirsi del miracolo che un uomo possa essere andato tanto lontano senza testa; ma con un sorriso particolare aggiunse: dans des cas pareils, il n'y a que le premier pas qui coute. Il tutto valeva due franchi che gli diedi pour l'amour de Voltaire. Dopo venti minuti ero a Parigi, e vi entrai per la porta del trionfo sul boulevard Saint Denis, originariamente fatta erigere in onore di Ludovico XIV, ma che allora servì a glorificare la mia entrata a Parigi.
(Heinrich Heine - Confessioni - Trad. Alberto Destro)
A Saint Denis mi svegliai da un dolce sonno mattutino e udii per la prima volta il grido del cocchiere: Paris! Paris! e insieme anche il campanello dei venditori di cocco. Qui si respira già l'aria della capitale, visibile all'orizzone. Un vecchio mascalzone d'un servo voleva persuadermi a visitare le tombe dei re, ma non ero venuto in Francia per vedere re morti e mi limitai a farmi narrare da quel cicerone la leggenda del luovo, ovvero di come il cattivo re dei pagani fece tagliare la testa al santo Denis, e questi con la testa in mano camminò da Parigi a Saint Denis per essere sotterrato qui e dare il proprio nome alla località. A pensare alla distanza, disse il mio narratore, ci sarebbe da stupirsi del miracolo che un uomo possa essere andato tanto lontano senza testa; ma con un sorriso particolare aggiunse: dans des cas pareils, il n'y a que le premier pas qui coute. Il tutto valeva due franchi che gli diedi pour l'amour de Voltaire. Dopo venti minuti ero a Parigi, e vi entrai per la porta del trionfo sul boulevard Saint Denis, originariamente fatta erigere in onore di Ludovico XIV, ma che allora servì a glorificare la mia entrata a Parigi.
(Heinrich Heine - Confessioni - Trad. Alberto Destro)
SCHELM DI BERGEN
C'è un ballo in costume stanotte al castello
di Dusseldorf, alto sul Reno.
Van maschere multicolori a le vampe
dei ceri nel ritmo sereno.
E danza la bella duchessa, mai stanca
di ridere forte, squillante.
Il suo ballerino è un garzone slanciato
ed agile, molto galante.
Dal suo mascherino di nero velluto
giulivo origliando scintilla
un occhio che,
come un pugnale snudato
a mezzo del fodero, brilla.
Applaudono liete la coppia al passaggio
le maschere carnevalesche:
con schiocchi e sghignazzi accompagnano il ritmo
le buffe figure burlesche.
La tromba spettegola, il contrabbasso
impazzisce, tempesta:
sinchè finalmente la musica tace
ed anche la danza s'arresta.
"O mia Serenissima, chiedo licenza:
io debbo andar via." - Ma ridendo,
gli fa la duchessa: "Ti lascio, ma prima
vedere il tuo viso pretendo."
"O mia Serenissima, chiedo licenza:
fa orrore, il mio viso, e spavento!"
Lei ride: "Non temo: su, mostrami il volto!
E poi parti pure, consento."
"O mia Serenissima, chiedo licenza:
la notte, la morte mi chiama!"
Lei ride: "Non prima ch'io veda il tuo volto,
che tu mi soddisfi la brama."
Invanno egli tenta di schermirsi con frasi
oscure; ragione non sente
la donna, ed infine gli strappa dal volto
la maschera violentemente.
"E' il boia di Bergen!" - la folla atterrita
sperdendosi grida, interdetta.
E dentro le braccia al consorte, tremante,
la bella duchessa si getta.
Il duca è avveduto, e l'oltraggio a la sposa
cancella in un batter d'occhio.
Snudata la spada lucente, comanda:
"Qui a me, giovanotto, in ginocchio!"
"Con questo mio colpo di spada, ti faccio
e nobile e cavaliere;
ma, essendo un carnefice, un Schelm, Schelm di Bergen,
quel nome dovrai mantenere."
Così fu il carnefice il nobile ceppo
dei Schelme di Bergen. Famosa,
superba progenie renana, che oggi
in arche di marmo riposa.
(Heinrich Heine - Romanzero - Trad. Giorgio Calabresi)
di Dusseldorf, alto sul Reno.
Van maschere multicolori a le vampe
dei ceri nel ritmo sereno.
E danza la bella duchessa, mai stanca
di ridere forte, squillante.
Il suo ballerino è un garzone slanciato
ed agile, molto galante.
Dal suo mascherino di nero velluto
giulivo origliando scintilla
un occhio che,
come un pugnale snudato
a mezzo del fodero, brilla.
Applaudono liete la coppia al passaggio
le maschere carnevalesche:
con schiocchi e sghignazzi accompagnano il ritmo
le buffe figure burlesche.
La tromba spettegola, il contrabbasso
impazzisce, tempesta:
sinchè finalmente la musica tace
ed anche la danza s'arresta.
"O mia Serenissima, chiedo licenza:
io debbo andar via." - Ma ridendo,
gli fa la duchessa: "Ti lascio, ma prima
vedere il tuo viso pretendo."
"O mia Serenissima, chiedo licenza:
fa orrore, il mio viso, e spavento!"
Lei ride: "Non temo: su, mostrami il volto!
E poi parti pure, consento."
"O mia Serenissima, chiedo licenza:
la notte, la morte mi chiama!"
Lei ride: "Non prima ch'io veda il tuo volto,
che tu mi soddisfi la brama."
Invanno egli tenta di schermirsi con frasi
oscure; ragione non sente
la donna, ed infine gli strappa dal volto
la maschera violentemente.
"E' il boia di Bergen!" - la folla atterrita
sperdendosi grida, interdetta.
E dentro le braccia al consorte, tremante,
la bella duchessa si getta.
Il duca è avveduto, e l'oltraggio a la sposa
cancella in un batter d'occhio.
Snudata la spada lucente, comanda:
"Qui a me, giovanotto, in ginocchio!"
"Con questo mio colpo di spada, ti faccio
e nobile e cavaliere;
ma, essendo un carnefice, un Schelm, Schelm di Bergen,
quel nome dovrai mantenere."
Così fu il carnefice il nobile ceppo
dei Schelme di Bergen. Famosa,
superba progenie renana, che oggi
in arche di marmo riposa.
(Heinrich Heine - Romanzero - Trad. Giorgio Calabresi)
PENSIERI E GHIRIBIZZI
Intorno alla mia culla scherzavano gli ultimi raggi lunari del secolo diciottesimo e i primi raggi mattutini del diciannovesimo.
Mia madre mi raccontava di aver veduto, durante la sua gravidanza, delle mele pendere in un giardino, ma di non averle volute cogliere per paura che suo figlio diventasse un ladro. E così io ho avuto sempre nella mia vita un'intima bramosia per i bei frutti, rattenuta però dal rispetto dell'altrui proprietà e dal ribrezzo del furto.
Io ho il carattere più pacifico di questo mondo. I miei desideri sono: una modesta capanna con un tetto di paglia, ma un buon letto, buon mangiare, latte e burro molto fresco; dinanzi alla finestra fiori, dinanzi alla porta qualche bell'albero; e se il buon Dio mi volesse rendere del tutto felice, dovrebbe farmi gustare la gioia di vedere a questi alberi appiccati sei o sette dei miei nemici. Commosso nel cuore, allora, dinanzi alla loro morte, loro perdonerei tutte le ingiustizie che mi hanno fatto in vita. Già, si deve perdonare ai propri nemici, ma non prima che si siano impiccati.
(Heinrich Heine - Pensieri e ghiribizzi - Trad. Antero Meozzi)
Mia madre mi raccontava di aver veduto, durante la sua gravidanza, delle mele pendere in un giardino, ma di non averle volute cogliere per paura che suo figlio diventasse un ladro. E così io ho avuto sempre nella mia vita un'intima bramosia per i bei frutti, rattenuta però dal rispetto dell'altrui proprietà e dal ribrezzo del furto.
Io ho il carattere più pacifico di questo mondo. I miei desideri sono: una modesta capanna con un tetto di paglia, ma un buon letto, buon mangiare, latte e burro molto fresco; dinanzi alla finestra fiori, dinanzi alla porta qualche bell'albero; e se il buon Dio mi volesse rendere del tutto felice, dovrebbe farmi gustare la gioia di vedere a questi alberi appiccati sei o sette dei miei nemici. Commosso nel cuore, allora, dinanzi alla loro morte, loro perdonerei tutte le ingiustizie che mi hanno fatto in vita. Già, si deve perdonare ai propri nemici, ma non prima che si siano impiccati.
(Heinrich Heine - Pensieri e ghiribizzi - Trad. Antero Meozzi)
IDEE. IL LIBRO LE GRAND
La vita, quale la si vive in cielo, Signora, Lei può immaginarsela facilmente, tanto più che Lei è maritata. Lassù ci si diverte in modo superbo, vi si trovano tutti i piaceri possibili, si vive nella gioia e nel buonumore, proprio come Dio in Francia; si banchetta dalla mattina alla sera; la cucina è squisita quanto quella di Jagor; oche arrostite svolazzano con una salsierina in becco e si sentono lusingate se le si assapora; torte lucide di burro crescono allo stato selvaggio, come girasoli; ovunque ruscelli di bouillon e di champagne; ovunque alberi da cui pendono tovaglioli al vento. Si mangia e ci si pulisce la bocca, e si torna a mangiare senza guastarsi lo stomaco; si intonano salmi o ci si trastulla con cari e teneri angioletti, oppure si passeggia sui verdi prati degli Alleluia; ci si sente a proprio agio in bianche morbide vesti e niente turba il senso di beatitudine; nessuna cura, nessun dolore. No. E se qualcuno per isbaglio vi pesta i calli ed esclama: «Excusez!», Voi sorridendo trasfigurato lo rassicurate: «Il tuo piede, fratello, non m'ha fatto alcun male; au contraire il mio corpo ne ha provato un più dolce e celeste rapimento.»
Ma dell'inferno, Signora, Lei non ha idea. Di tutti i diavoli Lei conosce forse solo il più piccolo, il piccolo diavoletto Amore; garbato croupier dell'inferno. E l'inferno Le è noto soltanto dal Don Giovanni, e per quest'ingannatore di donne, che dà così cattivo esempio, esso non le sembrerà mai abbastanza infocato, per quanto i nostri commendevolissimi direttori di teatro vi prodighino tutte le fiamme, le piogge di fuoco, le polveri e il colofonio che ogni buon cristiano sceso all'inferno possa onestamente pretendere.
In realtà l'inferno è molto più terribile di quanto i nostri teatranti non se lo immaginino, altrimenti non farebbero rappresentare tanti brutti drammi. All'inferno fa un caldo infernale e allorché mi ci ritrovai, nei giorni di canicola, mi parve assolutamente insopportabile. No, Signora, Lei non ha idea dell'inferno! D'altra parte noi riceviamo da laggiù solo poche notizie ufficiali. Ma dire che le povere anime vi siano costrette a leggere per tutto il giorno i cattivi sermoni che si stampano sulla terra - no, questa è pura calunnia. L'inferno non è brutto a tal punto, e Satana non immaginerà mai tormenti così raffinati.
(Heinrich Heine - Idee. Il libro Le Grand - Trad. Linder M.; Linder E.)
Ma dell'inferno, Signora, Lei non ha idea. Di tutti i diavoli Lei conosce forse solo il più piccolo, il piccolo diavoletto Amore; garbato croupier dell'inferno. E l'inferno Le è noto soltanto dal Don Giovanni, e per quest'ingannatore di donne, che dà così cattivo esempio, esso non le sembrerà mai abbastanza infocato, per quanto i nostri commendevolissimi direttori di teatro vi prodighino tutte le fiamme, le piogge di fuoco, le polveri e il colofonio che ogni buon cristiano sceso all'inferno possa onestamente pretendere.
In realtà l'inferno è molto più terribile di quanto i nostri teatranti non se lo immaginino, altrimenti non farebbero rappresentare tanti brutti drammi. All'inferno fa un caldo infernale e allorché mi ci ritrovai, nei giorni di canicola, mi parve assolutamente insopportabile. No, Signora, Lei non ha idea dell'inferno! D'altra parte noi riceviamo da laggiù solo poche notizie ufficiali. Ma dire che le povere anime vi siano costrette a leggere per tutto il giorno i cattivi sermoni che si stampano sulla terra - no, questa è pura calunnia. L'inferno non è brutto a tal punto, e Satana non immaginerà mai tormenti così raffinati.
(Heinrich Heine - Idee. Il libro Le Grand - Trad. Linder M.; Linder E.)
ALMANSOR
I.
Là nel Duomo di Cordòva
mille s'ergono colonne;
gigantesche, esse sostengono
quella cupola gigante.
Su colonne e su pareti,
le sentenze del Corano,
in arabico, s'intrecciano
genialmente, come fiori.
I re Mori un tempo eressero,
per Allah, questa dimora.
Molte cose son cambiate
nell'oscuro andar dei secoli.
Sulla torre ove il muezzino
già chiamava alla preghiera,
suonan ora le cristiane
melanconiche campane.
Sui gradini ove i credenti
invocavano il Profeta,
ora i preti chiericati
rappresentano la messa.
Ed è tutto un inchinarsi
a fantocci variopinti;
un belare, un incensare,
e di ceri un gocciolare.
Là, nel Duomo di Cordòva,
sta Almansòr ben Abdullah,
e contempla le colonne
e tra sé dice in silenzio:
"Voi, colonne gigantesche,
decorate per Allah,
voi dovete oggi servire
all'odiato cristianesimo.
Voi, ai tempi vi adattate
sopportate in pace il peso;
Io son uomo, e assai più debole,
tanto più mi adatterò."
E il suo capo, a viso lieto,
là nel Duomo di Cordòva,
sull'ornato battistero
piega il giovane Almansòr.
II.
Esce svelto poi dal Duomo,
fugge via sul suo destriero,
sciolto al vento il crin bagnato
e le piume del cappello.
Sulla via per Alkoléa,
lungo il gran Guadalquivìr,
tra gli amici profumati,
e tra i mandorli fioriti,
là cavalca il cavaliere;
fischia e canta, e lieto ride;
con lui cantano gli uccelli,
e lo strepito del fiume.
Nel castello di Alkoléa
vive Clara degli Alvares;
a Navarra è il padre in guerra:
lento è il freno della bella.
E Almansòr sente da lunge
trombe e timpani suonare,
e tra gli alberi brillare
vede i lumi del castello.
Ivi danzano eleganti
dame, danzano eleganti
cavalieri, ma nessuno
danza pari ad Almansòr.
Dal più allegro umore spinto
nella sala egli volteggia,
a ogni dama egli sa dire
le più amabili lusinghe.
A Isabella bacia rapido
le manine, e se ne va;
siede innanzi a Elvira bella
e la fissa, lieto, in viso.
A Leonora con un riso
chiede: Forse oggi ti piaccio?
e fa pompa delle croci
ricamate sul mantello.
A ogni dama egli assicura
che la porta in cuore, e giura
trenta volte in quella sera
"Com'è ver che son cristiano".
III.
Nel castello di Alkoléa
è cessato ogni diletto;
cavalieri e dame sparvero,
ed i lumi sono spenti.
Soli, Clara ed Almansòr
son rimasti nella sala,
e sui due l'ultima lampada
spande un debole chiaror.
Sul divano siede Clara,
ai suoi piedi il cavaliere;
sui ginocchi dell'amata
posa il capo sonnolento.
Versa Clara olio di rose
sopra i riccioli di lui,
premurosa e pensierosa...
Ei sospira dal profondo.
Posa Clara un lieve bacio
sopra i riccioli di lui,
premurosa e pensierosa...
Egli in volto si rannuvola.
Piange Clara un mar di pianto
sopra i riccioli di lui,
premurosa e pensierosa...
E le labbra di lui tremano.
Egli sogna; sta di nuovo,
chino il capo gocciolante,
là nel Duomo di Cordòva.
Mille oscure voci suonano.
Le colonne gigantesche
tutte mormorano irate,
più non voglion sopportare
l'onta, e ondeggiano, e vacillano,
e rovinano selvagge.
Prete e popolo si sbiancano.
L'alta cupola precipita,
e gli Dei cristiani gemono.
(Heinrich Heine - Il libro dei canti - Trad. Amalia Vago)
Là nel Duomo di Cordòva
mille s'ergono colonne;
gigantesche, esse sostengono
quella cupola gigante.
Su colonne e su pareti,
le sentenze del Corano,
in arabico, s'intrecciano
genialmente, come fiori.
I re Mori un tempo eressero,
per Allah, questa dimora.
Molte cose son cambiate
nell'oscuro andar dei secoli.
Sulla torre ove il muezzino
già chiamava alla preghiera,
suonan ora le cristiane
melanconiche campane.
Sui gradini ove i credenti
invocavano il Profeta,
ora i preti chiericati
rappresentano la messa.
Ed è tutto un inchinarsi
a fantocci variopinti;
un belare, un incensare,
e di ceri un gocciolare.
Là, nel Duomo di Cordòva,
sta Almansòr ben Abdullah,
e contempla le colonne
e tra sé dice in silenzio:
"Voi, colonne gigantesche,
decorate per Allah,
voi dovete oggi servire
all'odiato cristianesimo.
Voi, ai tempi vi adattate
sopportate in pace il peso;
Io son uomo, e assai più debole,
tanto più mi adatterò."
E il suo capo, a viso lieto,
là nel Duomo di Cordòva,
sull'ornato battistero
piega il giovane Almansòr.
II.
Esce svelto poi dal Duomo,
fugge via sul suo destriero,
sciolto al vento il crin bagnato
e le piume del cappello.
Sulla via per Alkoléa,
lungo il gran Guadalquivìr,
tra gli amici profumati,
e tra i mandorli fioriti,
là cavalca il cavaliere;
fischia e canta, e lieto ride;
con lui cantano gli uccelli,
e lo strepito del fiume.
Nel castello di Alkoléa
vive Clara degli Alvares;
a Navarra è il padre in guerra:
lento è il freno della bella.
E Almansòr sente da lunge
trombe e timpani suonare,
e tra gli alberi brillare
vede i lumi del castello.
Ivi danzano eleganti
dame, danzano eleganti
cavalieri, ma nessuno
danza pari ad Almansòr.
Dal più allegro umore spinto
nella sala egli volteggia,
a ogni dama egli sa dire
le più amabili lusinghe.
A Isabella bacia rapido
le manine, e se ne va;
siede innanzi a Elvira bella
e la fissa, lieto, in viso.
A Leonora con un riso
chiede: Forse oggi ti piaccio?
e fa pompa delle croci
ricamate sul mantello.
A ogni dama egli assicura
che la porta in cuore, e giura
trenta volte in quella sera
"Com'è ver che son cristiano".
III.
Nel castello di Alkoléa
è cessato ogni diletto;
cavalieri e dame sparvero,
ed i lumi sono spenti.
Soli, Clara ed Almansòr
son rimasti nella sala,
e sui due l'ultima lampada
spande un debole chiaror.
Sul divano siede Clara,
ai suoi piedi il cavaliere;
sui ginocchi dell'amata
posa il capo sonnolento.
Versa Clara olio di rose
sopra i riccioli di lui,
premurosa e pensierosa...
Ei sospira dal profondo.
Posa Clara un lieve bacio
sopra i riccioli di lui,
premurosa e pensierosa...
Egli in volto si rannuvola.
Piange Clara un mar di pianto
sopra i riccioli di lui,
premurosa e pensierosa...
E le labbra di lui tremano.
Egli sogna; sta di nuovo,
chino il capo gocciolante,
là nel Duomo di Cordòva.
Mille oscure voci suonano.
Le colonne gigantesche
tutte mormorano irate,
più non voglion sopportare
l'onta, e ondeggiano, e vacillano,
e rovinano selvagge.
Prete e popolo si sbiancano.
L'alta cupola precipita,
e gli Dei cristiani gemono.
(Heinrich Heine - Il libro dei canti - Trad. Amalia Vago)
LA CITTA' DI LUCCA - II
- Niente che voglia andare a ritroso, a questo mondo, - mi disse una vecchia lucertola sapiente; - tutto tende a progredire, e alla fine la natura farà un gran balzo avanti: le pietre diventeranno piante, le piante animali, gli animali uomini e gli uomini Dèi.
- E che ne sarà di quei buoni diavoli, i poveri vecchi Dèi?
- Si vedrà, caro amico, - rispose quella. - Probabilmente abdicheranno, o si troverà un modo dignitoso di mandarli in pensione.
Molti segreti appresi, dai miei filosofi naturali dalla pelle a geroglifici; ma ho dato la mia parola d'onore di non svelarne nessuno. Ora ne so più di Schelling e di Hegel.
- Che cosa ne pensa, lei, di questi due? - mi chiese con un sorriso sprezzante la vecchia lucertola, quando pronunciai al suo cospetto i loro nomi.
- Se si considera, - risposi - che sono semplicemente uomini, non lucertole, c'è da rimaner stupefatti della loro sapienza. In fondo, non insegnano che la stessa dottrina, la filosofia a voi ben nota dell'identità; solo nel modo di esporla differiscono. Quando Hegel illustra i primi princìpi della sua filosofia, par di vedere quelle tali figurine graziose che un abile maestro suol comporre mettendo artisticamente insieme ogni sorta di numeri, cosicchè uno spettatore comune vede solo l'apparenza esterna, la cassetta, la navicella, il soldatino che queste cifre formano, mentre uno scolaretto pensoso riconoscerà nel disegno la soluzione di un complicato problema aritmetico. In Schelling, le esposizioni ricordano piuttosto le figure di animali caratteristiche dell'India, che risultano dal fantastico intreccio di ogni sorta di animali, serpenti, uccelli, elefanti e simili ingredienti vivi. Questo modo di esporre è molto più gradevole, festoso, pulsante; in tutto esso, vive; mentre le cifre astratte di Hegel ci contemplano grigie, fredde, morte.
- Bene, bene, - rispose la vecchia lucertola - intuisco ciò che lei vuol dire; ma, di grazia, hanno molti discepoli, questi filosofi?
Le spiegai, allora, come nel dotto caravanserraglio di Berlino i cammelli si diano convegno intorno alla fontana della saggezza hegeliana, vi si inginocchino, si facciano caricar sulla gobba gli otri più preziosi e riprendanoil cammino per deserti sabbiosi della marca brandeburghese. Le descrissi inoltre come i novelli ateniesi facciano ressa alla fonte della spirituale bevanda schellinghiana, come se fosse la birra più gradevole, la coppa della vita, l'elisir dell'immortalità...
Una gialla invidia colse il piccolo filosofo della natura, quando seppe che i suoi colleghi godevano di un simile uditorio, e chiese stizzito: - Quale dei due ritiene più grande?.
- Non è cosa ch'io possa decidere, - fu la mia risposta, - più che non possa decidere se la Schechner è superiore alla Sonntag, e penso..
- Penso! - esclamò la lucertola, in un tono aspro e saccente, di profondo sprezzo. - Penso! E chi di voi pensa? Mio saggio signore, sono tremila anni che compio ricerche sulle funzioni intellettive degli animali, con particolare riguardo agli uomini, scimmie e serpenti; ho consacrato a queste strane creature la stessa sollecita cura che Lyonnet ai bruchi del salice e, a coronamento delle mie osservazioni, esperimenti e comparazioni anatomiche, posso assicurare nel modo più assoluto che nessun uomo pensa, solo ogni tanto vi salta in testa un ghiribizzo, e questi innocenti ghiribizzi chiamate pensieri, e l'allinearli chiamate pensare. Ma lo proclami pure a mio nome: nessun uomo pensa, nessun filosofo pensa, non pensano né Schelling né Hegele , quanto alla loro filosofia, non è che aria ed acqua, come le nuvole del cielo. Quante e quante di queste nuvole ho viste passarmi sopra, boriose, sicure di sé, e sciogliersi nel nulla primigenio al primo sole del mattino! Non v'è che una sola vera filosofia, e sta scritta in geroglifici eterni sulla mia coda!
Con queste parole, pronunciate con enfasi sdegnosa, la vecchia lucertola mi voltò la schiena e, mentre zampettava via pian piano, ci vidi sopra i più meravigliosi caratteri, snodatisi su tutta la coda in un variopinto linguaggio allusivo.
(Heinrich Heine - Impressioni di Viaggio - Italia - Trad. Bruno Maffi)
- E che ne sarà di quei buoni diavoli, i poveri vecchi Dèi?
- Si vedrà, caro amico, - rispose quella. - Probabilmente abdicheranno, o si troverà un modo dignitoso di mandarli in pensione.
Molti segreti appresi, dai miei filosofi naturali dalla pelle a geroglifici; ma ho dato la mia parola d'onore di non svelarne nessuno. Ora ne so più di Schelling e di Hegel.
- Che cosa ne pensa, lei, di questi due? - mi chiese con un sorriso sprezzante la vecchia lucertola, quando pronunciai al suo cospetto i loro nomi.
- Se si considera, - risposi - che sono semplicemente uomini, non lucertole, c'è da rimaner stupefatti della loro sapienza. In fondo, non insegnano che la stessa dottrina, la filosofia a voi ben nota dell'identità; solo nel modo di esporla differiscono. Quando Hegel illustra i primi princìpi della sua filosofia, par di vedere quelle tali figurine graziose che un abile maestro suol comporre mettendo artisticamente insieme ogni sorta di numeri, cosicchè uno spettatore comune vede solo l'apparenza esterna, la cassetta, la navicella, il soldatino che queste cifre formano, mentre uno scolaretto pensoso riconoscerà nel disegno la soluzione di un complicato problema aritmetico. In Schelling, le esposizioni ricordano piuttosto le figure di animali caratteristiche dell'India, che risultano dal fantastico intreccio di ogni sorta di animali, serpenti, uccelli, elefanti e simili ingredienti vivi. Questo modo di esporre è molto più gradevole, festoso, pulsante; in tutto esso, vive; mentre le cifre astratte di Hegel ci contemplano grigie, fredde, morte.
- Bene, bene, - rispose la vecchia lucertola - intuisco ciò che lei vuol dire; ma, di grazia, hanno molti discepoli, questi filosofi?
Le spiegai, allora, come nel dotto caravanserraglio di Berlino i cammelli si diano convegno intorno alla fontana della saggezza hegeliana, vi si inginocchino, si facciano caricar sulla gobba gli otri più preziosi e riprendanoil cammino per deserti sabbiosi della marca brandeburghese. Le descrissi inoltre come i novelli ateniesi facciano ressa alla fonte della spirituale bevanda schellinghiana, come se fosse la birra più gradevole, la coppa della vita, l'elisir dell'immortalità...
Una gialla invidia colse il piccolo filosofo della natura, quando seppe che i suoi colleghi godevano di un simile uditorio, e chiese stizzito: - Quale dei due ritiene più grande?.
- Non è cosa ch'io possa decidere, - fu la mia risposta, - più che non possa decidere se la Schechner è superiore alla Sonntag, e penso..
- Penso! - esclamò la lucertola, in un tono aspro e saccente, di profondo sprezzo. - Penso! E chi di voi pensa? Mio saggio signore, sono tremila anni che compio ricerche sulle funzioni intellettive degli animali, con particolare riguardo agli uomini, scimmie e serpenti; ho consacrato a queste strane creature la stessa sollecita cura che Lyonnet ai bruchi del salice e, a coronamento delle mie osservazioni, esperimenti e comparazioni anatomiche, posso assicurare nel modo più assoluto che nessun uomo pensa, solo ogni tanto vi salta in testa un ghiribizzo, e questi innocenti ghiribizzi chiamate pensieri, e l'allinearli chiamate pensare. Ma lo proclami pure a mio nome: nessun uomo pensa, nessun filosofo pensa, non pensano né Schelling né Hegele , quanto alla loro filosofia, non è che aria ed acqua, come le nuvole del cielo. Quante e quante di queste nuvole ho viste passarmi sopra, boriose, sicure di sé, e sciogliersi nel nulla primigenio al primo sole del mattino! Non v'è che una sola vera filosofia, e sta scritta in geroglifici eterni sulla mia coda!
Con queste parole, pronunciate con enfasi sdegnosa, la vecchia lucertola mi voltò la schiena e, mentre zampettava via pian piano, ci vidi sopra i più meravigliosi caratteri, snodatisi su tutta la coda in un variopinto linguaggio allusivo.
(Heinrich Heine - Impressioni di Viaggio - Italia - Trad. Bruno Maffi)
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