I.
Là nel Duomo di Cordòva
mille s'ergono colonne;
gigantesche, esse sostengono
quella cupola gigante.
Su colonne e su pareti,
le sentenze del Corano,
in arabico, s'intrecciano
genialmente, come fiori.
I re Mori un tempo eressero,
per Allah, questa dimora.
Molte cose son cambiate
nell'oscuro andar dei secoli.
Sulla torre ove il muezzino
già chiamava alla preghiera,
suonan ora le cristiane
melanconiche campane.
Sui gradini ove i credenti
invocavano il Profeta,
ora i preti chiericati
rappresentano la messa.
Ed è tutto un inchinarsi
a fantocci variopinti;
un belare, un incensare,
e di ceri un gocciolare.
Là, nel Duomo di Cordòva,
sta Almansòr ben Abdullah,
e contempla le colonne
e tra sé dice in silenzio:
"Voi, colonne gigantesche,
decorate per Allah,
voi dovete oggi servire
all'odiato cristianesimo.
Voi, ai tempi vi adattate
sopportate in pace il peso;
Io son uomo, e assai più debole,
tanto più mi adatterò."
E il suo capo, a viso lieto,
là nel Duomo di Cordòva,
sull'ornato battistero
piega il giovane Almansòr.
II.
Esce svelto poi dal Duomo,
fugge via sul suo destriero,
sciolto al vento il crin bagnato
e le piume del cappello.
Sulla via per Alkoléa,
lungo il gran Guadalquivìr,
tra gli amici profumati,
e tra i mandorli fioriti,
là cavalca il cavaliere;
fischia e canta, e lieto ride;
con lui cantano gli uccelli,
e lo strepito del fiume.
Nel castello di Alkoléa
vive Clara degli Alvares;
a Navarra è il padre in guerra:
lento è il freno della bella.
E Almansòr sente da lunge
trombe e timpani suonare,
e tra gli alberi brillare
vede i lumi del castello.
Ivi danzano eleganti
dame, danzano eleganti
cavalieri, ma nessuno
danza pari ad Almansòr.
Dal più allegro umore spinto
nella sala egli volteggia,
a ogni dama egli sa dire
le più amabili lusinghe.
A Isabella bacia rapido
le manine, e se ne va;
siede innanzi a Elvira bella
e la fissa, lieto, in viso.
A Leonora con un riso
chiede: Forse oggi ti piaccio?
e fa pompa delle croci
ricamate sul mantello.
A ogni dama egli assicura
che la porta in cuore, e giura
trenta volte in quella sera
"Com'è ver che son cristiano".
III.
Nel castello di Alkoléa
è cessato ogni diletto;
cavalieri e dame sparvero,
ed i lumi sono spenti.
Soli, Clara ed Almansòr
son rimasti nella sala,
e sui due l'ultima lampada
spande un debole chiaror.
Sul divano siede Clara,
ai suoi piedi il cavaliere;
sui ginocchi dell'amata
posa il capo sonnolento.
Versa Clara olio di rose
sopra i riccioli di lui,
premurosa e pensierosa...
Ei sospira dal profondo.
Posa Clara un lieve bacio
sopra i riccioli di lui,
premurosa e pensierosa...
Egli in volto si rannuvola.
Piange Clara un mar di pianto
sopra i riccioli di lui,
premurosa e pensierosa...
E le labbra di lui tremano.
Egli sogna; sta di nuovo,
chino il capo gocciolante,
là nel Duomo di Cordòva.
Mille oscure voci suonano.
Le colonne gigantesche
tutte mormorano irate,
più non voglion sopportare
l'onta, e ondeggiano, e vacillano,
e rovinano selvagge.
Prete e popolo si sbiancano.
L'alta cupola precipita,
e gli Dei cristiani gemono.
(Heinrich Heine - Il libro dei canti - Trad. Amalia Vago)
LA CITTA' DI LUCCA - II
- Niente che voglia andare a ritroso, a questo mondo, - mi disse una vecchia lucertola sapiente; - tutto tende a progredire, e alla fine la natura farà un gran balzo avanti: le pietre diventeranno piante, le piante animali, gli animali uomini e gli uomini Dèi.
- E che ne sarà di quei buoni diavoli, i poveri vecchi Dèi?
- Si vedrà, caro amico, - rispose quella. - Probabilmente abdicheranno, o si troverà un modo dignitoso di mandarli in pensione.
Molti segreti appresi, dai miei filosofi naturali dalla pelle a geroglifici; ma ho dato la mia parola d'onore di non svelarne nessuno. Ora ne so più di Schelling e di Hegel.
- Che cosa ne pensa, lei, di questi due? - mi chiese con un sorriso sprezzante la vecchia lucertola, quando pronunciai al suo cospetto i loro nomi.
- Se si considera, - risposi - che sono semplicemente uomini, non lucertole, c'è da rimaner stupefatti della loro sapienza. In fondo, non insegnano che la stessa dottrina, la filosofia a voi ben nota dell'identità; solo nel modo di esporla differiscono. Quando Hegel illustra i primi princìpi della sua filosofia, par di vedere quelle tali figurine graziose che un abile maestro suol comporre mettendo artisticamente insieme ogni sorta di numeri, cosicchè uno spettatore comune vede solo l'apparenza esterna, la cassetta, la navicella, il soldatino che queste cifre formano, mentre uno scolaretto pensoso riconoscerà nel disegno la soluzione di un complicato problema aritmetico. In Schelling, le esposizioni ricordano piuttosto le figure di animali caratteristiche dell'India, che risultano dal fantastico intreccio di ogni sorta di animali, serpenti, uccelli, elefanti e simili ingredienti vivi. Questo modo di esporre è molto più gradevole, festoso, pulsante; in tutto esso, vive; mentre le cifre astratte di Hegel ci contemplano grigie, fredde, morte.
- Bene, bene, - rispose la vecchia lucertola - intuisco ciò che lei vuol dire; ma, di grazia, hanno molti discepoli, questi filosofi?
Le spiegai, allora, come nel dotto caravanserraglio di Berlino i cammelli si diano convegno intorno alla fontana della saggezza hegeliana, vi si inginocchino, si facciano caricar sulla gobba gli otri più preziosi e riprendanoil cammino per deserti sabbiosi della marca brandeburghese. Le descrissi inoltre come i novelli ateniesi facciano ressa alla fonte della spirituale bevanda schellinghiana, come se fosse la birra più gradevole, la coppa della vita, l'elisir dell'immortalità...
Una gialla invidia colse il piccolo filosofo della natura, quando seppe che i suoi colleghi godevano di un simile uditorio, e chiese stizzito: - Quale dei due ritiene più grande?.
- Non è cosa ch'io possa decidere, - fu la mia risposta, - più che non possa decidere se la Schechner è superiore alla Sonntag, e penso..
- Penso! - esclamò la lucertola, in un tono aspro e saccente, di profondo sprezzo. - Penso! E chi di voi pensa? Mio saggio signore, sono tremila anni che compio ricerche sulle funzioni intellettive degli animali, con particolare riguardo agli uomini, scimmie e serpenti; ho consacrato a queste strane creature la stessa sollecita cura che Lyonnet ai bruchi del salice e, a coronamento delle mie osservazioni, esperimenti e comparazioni anatomiche, posso assicurare nel modo più assoluto che nessun uomo pensa, solo ogni tanto vi salta in testa un ghiribizzo, e questi innocenti ghiribizzi chiamate pensieri, e l'allinearli chiamate pensare. Ma lo proclami pure a mio nome: nessun uomo pensa, nessun filosofo pensa, non pensano né Schelling né Hegele , quanto alla loro filosofia, non è che aria ed acqua, come le nuvole del cielo. Quante e quante di queste nuvole ho viste passarmi sopra, boriose, sicure di sé, e sciogliersi nel nulla primigenio al primo sole del mattino! Non v'è che una sola vera filosofia, e sta scritta in geroglifici eterni sulla mia coda!
Con queste parole, pronunciate con enfasi sdegnosa, la vecchia lucertola mi voltò la schiena e, mentre zampettava via pian piano, ci vidi sopra i più meravigliosi caratteri, snodatisi su tutta la coda in un variopinto linguaggio allusivo.
(Heinrich Heine - Impressioni di Viaggio - Italia - Trad. Bruno Maffi)
- E che ne sarà di quei buoni diavoli, i poveri vecchi Dèi?
- Si vedrà, caro amico, - rispose quella. - Probabilmente abdicheranno, o si troverà un modo dignitoso di mandarli in pensione.
Molti segreti appresi, dai miei filosofi naturali dalla pelle a geroglifici; ma ho dato la mia parola d'onore di non svelarne nessuno. Ora ne so più di Schelling e di Hegel.
- Che cosa ne pensa, lei, di questi due? - mi chiese con un sorriso sprezzante la vecchia lucertola, quando pronunciai al suo cospetto i loro nomi.
- Se si considera, - risposi - che sono semplicemente uomini, non lucertole, c'è da rimaner stupefatti della loro sapienza. In fondo, non insegnano che la stessa dottrina, la filosofia a voi ben nota dell'identità; solo nel modo di esporla differiscono. Quando Hegel illustra i primi princìpi della sua filosofia, par di vedere quelle tali figurine graziose che un abile maestro suol comporre mettendo artisticamente insieme ogni sorta di numeri, cosicchè uno spettatore comune vede solo l'apparenza esterna, la cassetta, la navicella, il soldatino che queste cifre formano, mentre uno scolaretto pensoso riconoscerà nel disegno la soluzione di un complicato problema aritmetico. In Schelling, le esposizioni ricordano piuttosto le figure di animali caratteristiche dell'India, che risultano dal fantastico intreccio di ogni sorta di animali, serpenti, uccelli, elefanti e simili ingredienti vivi. Questo modo di esporre è molto più gradevole, festoso, pulsante; in tutto esso, vive; mentre le cifre astratte di Hegel ci contemplano grigie, fredde, morte.
- Bene, bene, - rispose la vecchia lucertola - intuisco ciò che lei vuol dire; ma, di grazia, hanno molti discepoli, questi filosofi?
Le spiegai, allora, come nel dotto caravanserraglio di Berlino i cammelli si diano convegno intorno alla fontana della saggezza hegeliana, vi si inginocchino, si facciano caricar sulla gobba gli otri più preziosi e riprendanoil cammino per deserti sabbiosi della marca brandeburghese. Le descrissi inoltre come i novelli ateniesi facciano ressa alla fonte della spirituale bevanda schellinghiana, come se fosse la birra più gradevole, la coppa della vita, l'elisir dell'immortalità...
Una gialla invidia colse il piccolo filosofo della natura, quando seppe che i suoi colleghi godevano di un simile uditorio, e chiese stizzito: - Quale dei due ritiene più grande?.
- Non è cosa ch'io possa decidere, - fu la mia risposta, - più che non possa decidere se la Schechner è superiore alla Sonntag, e penso..
- Penso! - esclamò la lucertola, in un tono aspro e saccente, di profondo sprezzo. - Penso! E chi di voi pensa? Mio saggio signore, sono tremila anni che compio ricerche sulle funzioni intellettive degli animali, con particolare riguardo agli uomini, scimmie e serpenti; ho consacrato a queste strane creature la stessa sollecita cura che Lyonnet ai bruchi del salice e, a coronamento delle mie osservazioni, esperimenti e comparazioni anatomiche, posso assicurare nel modo più assoluto che nessun uomo pensa, solo ogni tanto vi salta in testa un ghiribizzo, e questi innocenti ghiribizzi chiamate pensieri, e l'allinearli chiamate pensare. Ma lo proclami pure a mio nome: nessun uomo pensa, nessun filosofo pensa, non pensano né Schelling né Hegele , quanto alla loro filosofia, non è che aria ed acqua, come le nuvole del cielo. Quante e quante di queste nuvole ho viste passarmi sopra, boriose, sicure di sé, e sciogliersi nel nulla primigenio al primo sole del mattino! Non v'è che una sola vera filosofia, e sta scritta in geroglifici eterni sulla mia coda!
Con queste parole, pronunciate con enfasi sdegnosa, la vecchia lucertola mi voltò la schiena e, mentre zampettava via pian piano, ci vidi sopra i più meravigliosi caratteri, snodatisi su tutta la coda in un variopinto linguaggio allusivo.
(Heinrich Heine - Impressioni di Viaggio - Italia - Trad. Bruno Maffi)
RITORNO - 1
Nel gran buio della vita
una dolce forma un giorno
mi splendeva; ora è sparita,
notte fitta è a me d'intorno.
Quando i bimbi, nell'oscura
stanza, presi son dal pianto,
per scacciare la paura
van cantando forte un canto.
Bimbo folle io pure canto
nella triste oscurità.
Se non suona lieto il canto
pur l'angoscia se ne va.
una dolce forma un giorno
mi splendeva; ora è sparita,
notte fitta è a me d'intorno.
Quando i bimbi, nell'oscura
stanza, presi son dal pianto,
per scacciare la paura
van cantando forte un canto.
Bimbo folle io pure canto
nella triste oscurità.
Se non suona lieto il canto
pur l'angoscia se ne va.
(Heinrich Heine - Il libro dei canti - Trad. Amalia Vago)
RITORNO - 21
Tu puoi quieta dormire
e sai che io vivo ancora?
Torni l'antico sdegno
e il giogo io spezzo allora.
Sai la canzone antica?
Un morto innamorato
con sé a notte l'amata
nella tomba ha portato.
Credimi, tu bellissima,
tu perla delle amanti,
io vivo e son più forte
dei morti tutti quanti!
e sai che io vivo ancora?
Torni l'antico sdegno
e il giogo io spezzo allora.
Sai la canzone antica?
Un morto innamorato
con sé a notte l'amata
nella tomba ha portato.
Credimi, tu bellissima,
tu perla delle amanti,
io vivo e son più forte
dei morti tutti quanti!
(Heinrich Heine - Il libro dei canti - Trad. Amalia Vago)
IL PELLEGRINAGGIO A KEVLAAR
I.
Giace il figliolo a letto,
la madre sta al balcone.
"Su, Guglielmo, non vuoi
veder la processione?"
"Sto così male, mamma,
che più nulla mi preme;
penso alla Ghita morta,
e tutto il cuor mi geme".
"Su, andiamo a Kevlaar; prendi
libro e corona; là
il tuo cuore la santa
Madonna guarirà".
Sventolan gli stendardi,
salmodian le persone;
attraverso Colonia
passa la processione.
La madre regge il figlio,
con la folla si avvia;
cantano entrambi in coro:
Sii lodata, Maria!
II.
La Madonna oggi a Kevlaar
ha i vestiti più ornati;
oggi ha molto da fare,
vengono molti malati.
Ciascun le porta in voto,
secondo ciò che chiede,
membra fatte di cera,
una mano od un piede.
E chi una mano ha offerto,
gli guarisce la mano;
e chi un piede ha recato,
ecco il suo piede è sano.
Or danza sulla fune,
chi qua venne attrappito;
ed or suona il violino,
chi il dito ebbe guarito.
La madre prese un cero
e ne compose un cuore.
"Alla Madonna portalo,
guarirà il tuo dolore".
Il figliolo sospirando
lo prende, e va all'altare;
sgorga il pianto dall'occhio,
dal cuore il suo parlare:
"O santa o benedetta
pura ancella di Dio,
a te, del ciel Regina,
lamento il dolor mio!
Con la mamma abitavo
a Colonia, il paese
che ha molte centinaia
di cappelle e di chiese.
La Ghita a noi vicino
abitava; ora è morta...
Ti porto un cuor di cera,
tu il mio cuore conforta.
Sana il mio cuor ferito,
e la preghiera mia
sarà mattina e sera:
Sii lodata, Maria!"
III.
Dormono madre e figlio
nella piccola stanza,
ed entra la Madonna
e lieve lieve avanza.
Si chinò sul malato,
la mano gli posò
lieve lieve sul cuore,
sorrise e si dileguò.
Questo in sogno la madre
ed altre cose ha scorte;
e si destò che i cani
abbaiavano forte.
Là giaceva disteso
il suo figliolo morto;
la chiara aurora scherza
sopra quel volto smorto.
Essa giunge le mani,
e non sa come sia;
canta devota piano:
Sii lodata, Maria!
Giace il figliolo a letto,
la madre sta al balcone.
"Su, Guglielmo, non vuoi
veder la processione?"
"Sto così male, mamma,
che più nulla mi preme;
penso alla Ghita morta,
e tutto il cuor mi geme".
"Su, andiamo a Kevlaar; prendi
libro e corona; là
il tuo cuore la santa
Madonna guarirà".
Sventolan gli stendardi,
salmodian le persone;
attraverso Colonia
passa la processione.
La madre regge il figlio,
con la folla si avvia;
cantano entrambi in coro:
Sii lodata, Maria!
II.
La Madonna oggi a Kevlaar
ha i vestiti più ornati;
oggi ha molto da fare,
vengono molti malati.
Ciascun le porta in voto,
secondo ciò che chiede,
membra fatte di cera,
una mano od un piede.
E chi una mano ha offerto,
gli guarisce la mano;
e chi un piede ha recato,
ecco il suo piede è sano.
Or danza sulla fune,
chi qua venne attrappito;
ed or suona il violino,
chi il dito ebbe guarito.
La madre prese un cero
e ne compose un cuore.
"Alla Madonna portalo,
guarirà il tuo dolore".
Il figliolo sospirando
lo prende, e va all'altare;
sgorga il pianto dall'occhio,
dal cuore il suo parlare:
"O santa o benedetta
pura ancella di Dio,
a te, del ciel Regina,
lamento il dolor mio!
Con la mamma abitavo
a Colonia, il paese
che ha molte centinaia
di cappelle e di chiese.
La Ghita a noi vicino
abitava; ora è morta...
Ti porto un cuor di cera,
tu il mio cuore conforta.
Sana il mio cuor ferito,
e la preghiera mia
sarà mattina e sera:
Sii lodata, Maria!"
III.
Dormono madre e figlio
nella piccola stanza,
ed entra la Madonna
e lieve lieve avanza.
Si chinò sul malato,
la mano gli posò
lieve lieve sul cuore,
sorrise e si dileguò.
Questo in sogno la madre
ed altre cose ha scorte;
e si destò che i cani
abbaiavano forte.
Là giaceva disteso
il suo figliolo morto;
la chiara aurora scherza
sopra quel volto smorto.
Essa giunge le mani,
e non sa come sia;
canta devota piano:
Sii lodata, Maria!
(Heinrich Heine - Il libro dei canti - Trad. Amalia Vago)
ATTA TROLL
CAPUT III
E' il mio canto un sogno senza
scopo, al pari de l'amore,
de la vita, del creato,
de l'istesso Creatore.
Corra o trotti, o de le favole
verso il regno ergasi a volo,
obbedire al suo capriccio
il mio Pegaso vuol solo.
Virtuosa ed util brenna
di borghesi egli non è;
né destrier che in guerra sbuffi
e la polve alzi col piè.
No; ferrate d'or le zampe
ha l'alato mio corsiere;
ha le redini di perle,
ch'io vagar lascio a piacere.
Or mi porta ove tu vuoi;
sovra i poggi al ciel sorgenti,
ove mugghian le cascate
i lugubri avvertimenti;
ne le quete umili valli,
ove, al piè le pensose
querci, sgorgan de le favole
le fontane misteriose.
Bagnar gli occhi di quell'onda
e labbra indi m'assenti,
di quell'onda ch'ai mortali
apre gli occhi apre le menti.
Cade il velo, ecco: dischiusa
ogni grotta ecco m'appare:
Atta Troll veggo, e lo sento
ne la sua grotta parlare.
Cosa strana! Questa lingua
non m'è nuova! Or dove, or quando
la sentii? Forse nel dolce
mio paese? Io mi domando.
CAPUT IX
Come rossa da le labbra
nereggianti a un tratto fuore
vien la lingua del Re Moro,
quando è preso di furore,
così fuori esce la luna
da le oscure nubi rotte:
suonan lungi le cascate
nel silenzio de la notte.
Solo, in cima de la rupe,
dritto, in fiero atteggiamento,
Atta Troll sta sopra l'orlo
de l'abisso, ed urla al vento.
"Sì, io sono un orso, io sono
ciò che dire di una pelosa,
una brutta orribil fiera;
e Dio sa qual altra cosa.
Sì, io sono un orso, io sono
quella stupida bestiaccia,
che irridete, che sprezzate,
ed a cui date la caccia.
Il buffon vostro son io;
l'orco io son, la bestia nera,
onde i bimbi impertinenti
spaventate in su la sera.
Sono il mostro dei racconti
de le vostre balie. E' vero:
sì, ciò sono; e ad alta voce
io lo grido al mondo intero.
Sì, signori! io sono un orso;
né ciò tengo a mio disdoro,
anzi, come se da Mendelssohn
discendessi, me ne onoro."
CAPUT XIV
Sul pendio de la montagna
le cui cime il sole indora,
un villaggio, quasi nido
d'augelletti, sporge fuora.
Io lassù con gran fatica
e pericolo arrivai.
Tutti i vecchi eran fuggiti:
solo i bimbi ci trovai.
Graziosi fanciulletti,
coi cappucci di colore,
recitavan ne la piazza
le commedie dell'amore.
Seguitar senza turbarsi
il lor gioco; ed io l'amante
topolino inginocchiarsi
e la gatta vidi innante.
Si fa sposo. Allor la moglie
sgrida, morde; e alfine irata
se lo mangia. Morto il topo,
la commedia è terminata.
Mi trattenni con quei bimbi
tutto il giorno quasi: ed essi,
conversando, mi richiesereo
chi foss'io, e che facessi.
"La Germania, o cari, io dissi,
è la terra dove nacqui:
ci son molti orsi; ed agli orsi
di cacciar sempre mi piacqui.
A più d'un la pelle intera
ho dal corpo io là strappata;
ma talvolta m'ebbi ancora
qualche ruvida zampata.
Finalmente un dì fastidio
invincibile mi prese
di pugnar sempre con quelli
stupidi orsi del paese:
e men venni qua, sperando
miglior caccia ritrovare.
Le mie forze col valente
Atta Troll cò misurare.
Questi è un nobile avversario,
contro il quale vincere è gloria.
In Germania dovrei spesso
arrossir della vittoria."
Allor ch'io mi congedai,
fero un cerchio intorno a me,
e cantaro i bimbi in coro:
"Girofflino, girofflé."
Poi la bimba più piccina
vispa e franca s'avanzò,
mi fe' quattro riverenze,
e guardandomi cantò:
"Quando incontro il re per via,
io gli fo due riverenze;
e se incontro la regina,
io le fo tre riverenze:
ma se il diavol con le corna
vien per caso incontro a me,
gli fo quattro riverenze!
Girofflino, girofflè."
"Girofflino, girofflè"
ripeté dei bimbi il coro,
ed intorno a le mie gambe
ripigliar la danza loro.
Ne la valle io scesi, e come
pispigliar d'augelli, a me
venìa sempre il dolce canto:
"Girofflino, girofflè."
E' il mio canto un sogno senza
scopo, al pari de l'amore,
de la vita, del creato,
de l'istesso Creatore.
Corra o trotti, o de le favole
verso il regno ergasi a volo,
obbedire al suo capriccio
il mio Pegaso vuol solo.
Virtuosa ed util brenna
di borghesi egli non è;
né destrier che in guerra sbuffi
e la polve alzi col piè.
No; ferrate d'or le zampe
ha l'alato mio corsiere;
ha le redini di perle,
ch'io vagar lascio a piacere.
Or mi porta ove tu vuoi;
sovra i poggi al ciel sorgenti,
ove mugghian le cascate
i lugubri avvertimenti;
ne le quete umili valli,
ove, al piè le pensose
querci, sgorgan de le favole
le fontane misteriose.
Bagnar gli occhi di quell'onda
e labbra indi m'assenti,
di quell'onda ch'ai mortali
apre gli occhi apre le menti.
Cade il velo, ecco: dischiusa
ogni grotta ecco m'appare:
Atta Troll veggo, e lo sento
ne la sua grotta parlare.
Cosa strana! Questa lingua
non m'è nuova! Or dove, or quando
la sentii? Forse nel dolce
mio paese? Io mi domando.
CAPUT IX
Come rossa da le labbra
nereggianti a un tratto fuore
vien la lingua del Re Moro,
quando è preso di furore,
così fuori esce la luna
da le oscure nubi rotte:
suonan lungi le cascate
nel silenzio de la notte.
Solo, in cima de la rupe,
dritto, in fiero atteggiamento,
Atta Troll sta sopra l'orlo
de l'abisso, ed urla al vento.
"Sì, io sono un orso, io sono
ciò che dire di una pelosa,
una brutta orribil fiera;
e Dio sa qual altra cosa.
Sì, io sono un orso, io sono
quella stupida bestiaccia,
che irridete, che sprezzate,
ed a cui date la caccia.
Il buffon vostro son io;
l'orco io son, la bestia nera,
onde i bimbi impertinenti
spaventate in su la sera.
Sono il mostro dei racconti
de le vostre balie. E' vero:
sì, ciò sono; e ad alta voce
io lo grido al mondo intero.
Sì, signori! io sono un orso;
né ciò tengo a mio disdoro,
anzi, come se da Mendelssohn
discendessi, me ne onoro."
CAPUT XIV
Sul pendio de la montagna
le cui cime il sole indora,
un villaggio, quasi nido
d'augelletti, sporge fuora.
Io lassù con gran fatica
e pericolo arrivai.
Tutti i vecchi eran fuggiti:
solo i bimbi ci trovai.
Graziosi fanciulletti,
coi cappucci di colore,
recitavan ne la piazza
le commedie dell'amore.
Seguitar senza turbarsi
il lor gioco; ed io l'amante
topolino inginocchiarsi
e la gatta vidi innante.
Si fa sposo. Allor la moglie
sgrida, morde; e alfine irata
se lo mangia. Morto il topo,
la commedia è terminata.
Mi trattenni con quei bimbi
tutto il giorno quasi: ed essi,
conversando, mi richiesereo
chi foss'io, e che facessi.
"La Germania, o cari, io dissi,
è la terra dove nacqui:
ci son molti orsi; ed agli orsi
di cacciar sempre mi piacqui.
A più d'un la pelle intera
ho dal corpo io là strappata;
ma talvolta m'ebbi ancora
qualche ruvida zampata.
Finalmente un dì fastidio
invincibile mi prese
di pugnar sempre con quelli
stupidi orsi del paese:
e men venni qua, sperando
miglior caccia ritrovare.
Le mie forze col valente
Atta Troll cò misurare.
Questi è un nobile avversario,
contro il quale vincere è gloria.
In Germania dovrei spesso
arrossir della vittoria."
Allor ch'io mi congedai,
fero un cerchio intorno a me,
e cantaro i bimbi in coro:
"Girofflino, girofflé."
Poi la bimba più piccina
vispa e franca s'avanzò,
mi fe' quattro riverenze,
e guardandomi cantò:
"Quando incontro il re per via,
io gli fo due riverenze;
e se incontro la regina,
io le fo tre riverenze:
ma se il diavol con le corna
vien per caso incontro a me,
gli fo quattro riverenze!
Girofflino, girofflè."
"Girofflino, girofflè"
ripeté dei bimbi il coro,
ed intorno a le mie gambe
ripigliar la danza loro.
Ne la valle io scesi, e come
pispigliar d'augelli, a me
venìa sempre il dolce canto:
"Girofflino, girofflè."
(Heinrich Heine - Antologia Lirica - Trad. Giuseppe Chiarini)
RITORNO - 53
La mia pallida faccia non tradisce
le mie pene da sola?
Tu vuoi che dica l'orgogliosa bocca
mendìca una parola?
Ah no, troppo orgogliosa è questa bocca
e solo bacia e ride;
forse direbbe una parola ironica,
mentre il dolor mi uccide.
le mie pene da sola?
Tu vuoi che dica l'orgogliosa bocca
mendìca una parola?
Ah no, troppo orgogliosa è questa bocca
e solo bacia e ride;
forse direbbe una parola ironica,
mentre il dolor mi uccide.
(Heinrich Heine - Il libro dei canti - Trad. Amalia Vago)
SPOSE CELESTI
Chi dal chiostro a mezzanotte
passi per combinazione,
vedrà luce alle finestre.
Son gli spettri in processione.
Tetra schiera d'Orsoline
morte; giovani sembianti
vaghi, tra cappucci e lini,
neri e candidi, origlianti.
Torce splendono sinistre,
rosso sangue, fra le mani,
rieccheggiano nel chiostro
lai, sussurri fiochi e strani.
Il corteo va dentro in chiesa
e, di bossolo sui seggi
assidendosi, nel coro,
dà la stura ai suoi solfeggi.
Arie sacre, litanìe,
ma parole deliranti;
poveranime, del cielo
su le spoglie, supplicanti.
"Fummo spose a Cristo; pure
cu traviò terren desìo,
sicchè a Cesare noi demmo
la prebenda del Buon Dio.
"Seducenti sono i baffi
lustri e lisci, e l'uniforme.
E poi Cesare ha spalline
d'oro d'un prestigio enorme.
"Alla fronte che di spine
cinse un serto noi fornimmo
un trofeo da cervo. Il nostro
Redentore noi tradimmo.
"E' Gesù, bontà in persona,
per la nostra colpa abietta
pianse dolce, e: "L'alma vostra -
disse poi - sia maledetta!
"Spettri evasi dalle tombe,
noi dobbiam tutte le sere
vagolar fra queste mura -
Miserere! Miserere!
"Non sarebbe mal l'avello
se, ne le celesti sfere,
non si stesse più al calduccio -
Miserere! Miserere!
"Deh! rimettici la colpa,
Gesù dolce, e trattenere
ci potrai nel caldo cielo -
Miserere! Miserere!
Canta il coro. E un sagrestano
morto, all'organo, ridesta
da le canne artigli d'ombra
in un nembo di tempesta.
passi per combinazione,
vedrà luce alle finestre.
Son gli spettri in processione.
Tetra schiera d'Orsoline
morte; giovani sembianti
vaghi, tra cappucci e lini,
neri e candidi, origlianti.
Torce splendono sinistre,
rosso sangue, fra le mani,
rieccheggiano nel chiostro
lai, sussurri fiochi e strani.
Il corteo va dentro in chiesa
e, di bossolo sui seggi
assidendosi, nel coro,
dà la stura ai suoi solfeggi.
Arie sacre, litanìe,
ma parole deliranti;
poveranime, del cielo
su le spoglie, supplicanti.
"Fummo spose a Cristo; pure
cu traviò terren desìo,
sicchè a Cesare noi demmo
la prebenda del Buon Dio.
"Seducenti sono i baffi
lustri e lisci, e l'uniforme.
E poi Cesare ha spalline
d'oro d'un prestigio enorme.
"Alla fronte che di spine
cinse un serto noi fornimmo
un trofeo da cervo. Il nostro
Redentore noi tradimmo.
"E' Gesù, bontà in persona,
per la nostra colpa abietta
pianse dolce, e: "L'alma vostra -
disse poi - sia maledetta!
"Spettri evasi dalle tombe,
noi dobbiam tutte le sere
vagolar fra queste mura -
Miserere! Miserere!
"Non sarebbe mal l'avello
se, ne le celesti sfere,
non si stesse più al calduccio -
Miserere! Miserere!
"Deh! rimettici la colpa,
Gesù dolce, e trattenere
ci potrai nel caldo cielo -
Miserere! Miserere!
Canta il coro. E un sagrestano
morto, all'organo, ridesta
da le canne artigli d'ombra
in un nembo di tempesta.
(Heinrich Heine - Romanzero - Trad. Giorgio Calabresi)
NELL'ALBUM DI MATILDE
Qui, in carta straccia, con solenne
calamo d'oca ed in poesia
io devo buttar giù, fra serio
e celia, qualche frascherìa.
Io, che ad esprimermi son uso
sulla boccuccia tua di rose
coi baci, fiamme che dal fondo
del cuore irrompono impetuose!
E' moda! Quando s'è poeti,
la moglie non concede tregua
se un verso, accanto agli altri vati
canori, in album non s'esegua!
calamo d'oca ed in poesia
io devo buttar giù, fra serio
e celia, qualche frascherìa.
Io, che ad esprimermi son uso
sulla boccuccia tua di rose
coi baci, fiamme che dal fondo
del cuore irrompono impetuose!
E' moda! Quando s'è poeti,
la moglie non concede tregua
se un verso, accanto agli altri vati
canori, in album non s'esegua!
(Heinrich Heine - Romanzero - Trad. Giorgio Calabresi)
IMPERFEZIONE
Nulla c'è a questo mondo di perfetto.
La rosa ha le sue spine; di difetto
credo perfino che non siano esenti
lassù nel cielo gli angioli innocenti.
Il tulipano non ha olezzo. Al reno
si dice: "Anche Onestuomo rubò almeno
un porco". Senza quel suicidio ardito
udreste che Lucrezia ha partorito.
Il pavone superbo ha il piede orrendo.
La spiritosa dama dà, leggendo
l'Henriade di Voltaire, noia a chi ascolta,
come il Messia di Klopstock qualche volta.
Vacca dotta in spagnolo non si trova,
nè Massmann sa il latino. Fin Canova
a Venere il sedere troppo raso
ha fatto, e Massmann naticuto ha il naso.
In dolce carme un'aspra rima è fiele
come aculeo d'ape dentro il miele.
Achille aveva il piede vulnerabile,
e che Dumas è meticcio è incontestabile.
L'astro che lassù in cielo ha più splendore
casca giù se si piglia il raffreddore.
Della botte a seconda può piacere
il miglior sidro, e il sole ha macchie nere.
E tu, Signora egregia, tu non sei
neppur senza difetti, senza nei.
Mi guardi - e chiedi: "Cosa mi contamina?
Cosa mi manca?" - Un petto, e in petto un'anima. -
La rosa ha le sue spine; di difetto
credo perfino che non siano esenti
lassù nel cielo gli angioli innocenti.
Il tulipano non ha olezzo. Al reno
si dice: "Anche Onestuomo rubò almeno
un porco". Senza quel suicidio ardito
udreste che Lucrezia ha partorito.
Il pavone superbo ha il piede orrendo.
La spiritosa dama dà, leggendo
l'Henriade di Voltaire, noia a chi ascolta,
come il Messia di Klopstock qualche volta.
Vacca dotta in spagnolo non si trova,
nè Massmann sa il latino. Fin Canova
a Venere il sedere troppo raso
ha fatto, e Massmann naticuto ha il naso.
In dolce carme un'aspra rima è fiele
come aculeo d'ape dentro il miele.
Achille aveva il piede vulnerabile,
e che Dumas è meticcio è incontestabile.
L'astro che lassù in cielo ha più splendore
casca giù se si piglia il raffreddore.
Della botte a seconda può piacere
il miglior sidro, e il sole ha macchie nere.
E tu, Signora egregia, tu non sei
neppur senza difetti, senza nei.
Mi guardi - e chiedi: "Cosa mi contamina?
Cosa mi manca?" - Un petto, e in petto un'anima. -
(Heinrich Heine - Romanzero - Trad. Giorgio Calabresi)
COSI' VA IL MONDO
Quando hai molto, assai più ancora
di ricever ti vien fatto.
Quando hai poco solamente,
anche il poco t'è sottratto.
Ma se proprio non hai niente,
ah, va' a farti sotterrare -
sol chi ha qualcosa, straccio,
ha diritto di campare!
di ricever ti vien fatto.
Quando hai poco solamente,
anche il poco t'è sottratto.
Ma se proprio non hai niente,
ah, va' a farti sotterrare -
sol chi ha qualcosa, straccio,
ha diritto di campare!
(Heinrich Heine - Romanzero - Trad. Giorgio Calabresi)
LA CINA
Conoscete la Cina, la patria dei draghi alati e delle teiere di porcellana? L'intero paese è un salotto pieno di cose rare, circondato da una muraglia di smisurata lunghezza e da centomila scolte tartare. Ma gli uccelli e i pensieri dei dotti europei la superarono a volo, e quando hanno rimirato ogni cosa a sazietà tornano indietro e ci raccontano le cose più preziose su quel curioso paese e quella curiosa gente.
La natura con i suoi stridenti arabeschi, con gli strani fiori giganteschi, gli alberi nani, i frutti baroccamente voluttuosi, gli uccelli dai colori stravaganti, è una fantastica caricatura al pari dell'uomo con il suo codino appuntito, i suoi inchini, le lunghe unghie, la sua vecchia saggezza e l'infantile lingua monosillabica.
Uomo e natura non possono guardarsi, laggiù, senza avere una gran voglia di ridere. Ma non ridono forte perchè sono - entrambi - troppo civili e cortesi; e per reprimere il riso fanno facce buffissime e serie nel medesimo tempo. Non ci sono, laggiù, né ombra né prospettiva. Sulle case variopinte s'innalzano, l'uno sopra l'altro, una serie di tetti simili a tanti ombrelli aperti dai quali pendono campanelle metalliche, di modo che il vento, soffiando, è costretto a rendersi ridicolo con un matto scampanellio.
La natura con i suoi stridenti arabeschi, con gli strani fiori giganteschi, gli alberi nani, i frutti baroccamente voluttuosi, gli uccelli dai colori stravaganti, è una fantastica caricatura al pari dell'uomo con il suo codino appuntito, i suoi inchini, le lunghe unghie, la sua vecchia saggezza e l'infantile lingua monosillabica.
Uomo e natura non possono guardarsi, laggiù, senza avere una gran voglia di ridere. Ma non ridono forte perchè sono - entrambi - troppo civili e cortesi; e per reprimere il riso fanno facce buffissime e serie nel medesimo tempo. Non ci sono, laggiù, né ombra né prospettiva. Sulle case variopinte s'innalzano, l'uno sopra l'altro, una serie di tetti simili a tanti ombrelli aperti dai quali pendono campanelle metalliche, di modo che il vento, soffiando, è costretto a rendersi ridicolo con un matto scampanellio.
(Heinrich Heine - La Germania - Libro Terzo; Trad. Paolo Chiarini)
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